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MARIA SABINA LEMBO- Avvocato penalista e tributarista, Giornalista pubblicista iscritta all'Albo, Autore di pubblicazioni giuridiche, Relatore e chairman in convegni giuridici,Fondatore e Responsabile giuridico di www.giuristiediritto.it

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venerdì 23 agosto 2013

COMUNICATO STAMPA- REFERENTE TERRITORIALE BASILICATA AREA TUTELA VITTIME-FRATELLI DI ITALIA


Con grande gioia ho appreso di essere stata chiamata a rappresentare la mia regione Basilicata nell'Area “Tutela Vittime della Violenza” di Fratelli d'Italia. Voglio manifestare, oggi, i miei sentimenti di stima, di affetto, di gratitudine a Fratelli di Italia di Basilicata in persona dei suoi portavoce regionali dott. Rosa e dott. Venezia  che hanno creduto in me affidandomi il delicato compito di sensibilizzare la cittadinanza con campagne informative e formative e di dare supporto alle vittime e ai loro familiari, in base alle direttive della sede nazionale di Roma e della sua responsabile dott.ssa Benedettelli.

Occorre stimolare sempre la riflessione e fornire informazioni corrette e anche consigli per la tutela dei diritti delle vittime sottoposte tra l’altro ad una seconda vittimizzazione durante il processo penale.

Dobbiamo farci carico, come società civile, di assicurare la miglior tutela alle “vittime” del reato in senso lato, persone offese e testimoni.

L’Italia risulta essere uno tra gli ultimi Stati Europei a non avere ancora adeguato il sistema legislativo, giudiziario ed istituzionale alle politiche comunitarie ed internazionali.

Per tali motivi, sono proprio i partiti politici, e in questo caso il Movimento di Fratelli di Italia, gli unici in grado di far leva sul legislatore affinchè sia attento alle esigenze di tutela di tutti i generi di vittime, e quindi ad esempio si possa promulgare presto una legge sul femminicidio e una sull’omicidio stradale, evitando di perdere del tempo come è accaduto, nello scorso ottobre,  per la avvenuta ratifica della Convenzione di Lanzarote.

La mia competenza ed esperienza (in ambito professionale legale e giornalistico, di pubblicazioni, di corsi e di convegni) sarà, quindi, a disposizione di Fratelli di Italia di Basilicata.

Di comune accordo saranno, ben presto, stabilite le prime attività e se ne potrà discutere sin da domani, giornata importante perché di inaugurazione della sede di Fratelli di Italia in Potenza.

maria sabina lembo- IL PARERE PENALE MOTIVATO PRO-VERITATE

pubblicato con CENDON LIBRI luglio 2013




Per affrontare serenamente la prova scritta di abilitazione forense occorre predisporre un buon metodo di studio, esercitarsi incessantemente con la simulazione della brutta e bella copia, ragionare sugli istituti giuridici e sulle problematiche sollevate dalla traccia, familiarizzare con il codice commentato, seguire i criteri di valutazione che la legge impone alle Commissioni.

maria sabina lembo- LA VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE

pubblicato con YOUCANPRINTEDITORE a marzo 2013


Il volume analizza con taglio pratico:

IL DELITTO DI SOTTRAZIONE AGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE EX ART. 570 PRIMO COMMA C.P. (ABBANDONO DEL DOMICILIO DOMESTICO, CONDOTTA CONTRARIA ALL’ORDINE O ALLA MORALE DELLE FAMIGLIE),
la Malversazione o dilapidazione dei beni del figlio minore, del pupillo o del coniuge (art. 570 secondo comma n.1 C.P.), L’OMESSA PRESTAZIONE DEI MEZZI DI SUSSISTENZA (ART. 570 SECONDO COMMA N. 2 C.P.),
IL REATO DI MANCATA CORRESPONSIONE DELL’ASSEGNO DIVORZILE ex ART. 12-SEXIES DELLA L. 898/1970,
L’ART. 3 DELLA LEGGE N. 54/2006 SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO DEI FIGLI.

maria sabina lembo/giselda cianciola "I REATI CONTRO LE DONNE E I MINORI"- Giuffrè Editore

Aspetti normativi, giurisprudenziali, criminologici, vittimologici

pubblicato a dicembre 2012

sabato 17 dicembre 2011

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE



(Presidente Luccioli - Relatore Dogliotti)

Svolgimento del processo

D. G. L. presentava ricorso al Tribunale per i minorenni di Ancona, chiedendo la sospensione della potestà del padre naturale della minore A., nata nel omissis, M. M.. Questi chiedeva rigettarsi la domanda della D. G., instando, a sua volta, per la sospensione della potestà della D. G..

Veniva svolta attività istruttoria (relazione dei servizi; consulenza tecnica d'ufficio).

All'esito, il Tribunale minorile, con decreto 20/12/2007, disponeva l'affidamento condiviso della minore ai genitori, con collocamento della bambina presso il padre.

Proponeva reclamo la D. G., ribadendo la richiesta di sospensione della potestà paterna.

Il M. chiedeva il rigetto del reclamo.

La Corte d'Appello di Ancona - Sezione per i minorenni, con decreto in data 26/3/2008, fermo l'affidamento condiviso ad entrambi i genitori, disponeva la collocazione della minore presso la madre, con ampia facoltà di visita del padre; condannava quest'ultimo alla corresponsione di un assegno periodico per la minore di euro 250 mensili.

Ricorre per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. il M., con cinque motivi.

Resiste, con controricorso, la D. G., proponendo ricorso incidentale.







Motivi della decisione



Vanno riuniti i ricorsi principale ed incidentale, ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Questione preliminare, da esaminare d'ufficio, non avendola dedotta nessuna delle parti, riguarda la ricorribilità per cassazione, ancorché ai sensi dell'art. 111 Cost., del decreto della Corte di Appello, Sezione per i minorenni che abbia pronunciato, ai sensi dell'art. 317 bis c.c. sull'affidamento dei figli di genitori non coniugati. È ben consapevole il Collegio che la giurisprudenza consolidata di questa Corte ha risolto la questione nel senso dell'inammissibilità del ricorso, ricollegando tale materia a quella dell'esercizio della potestà e dei suoi limiti (art. 333, 330 c.c.). (Tra le altre, Cass. sez. un. n. 25008 del 2007; n. 13286 del 2004).

Ritiene tuttavia il Collegio che a diversa soluzione debba pervenirsi alla luce del recente intervento normativo di cui alla l. n. 54 del 2006.

Considerando la questione in prospettiva storica, va osservato che, anteriormente alla riforma del 1975, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati veniva fatto rientrare nella previsione dell'art. 333 c.c.: una limitazione della potestà, una sorta di sanzione per il genitore non idoneo (anche se, fin d'allora, l'interpretazione dell'art. 333 c.c. si andava facendo più estesa, ed iniziava a considerare le situazioni oggettivamente pregiudizievoli, indipendentemente dalla colpa del genitore). Quanto ai profili economici, si richiamava l'obbligo alimentare, e la relativa procedura (art. 433 c.c. e segg.), introducendosi così una distribuzione di competenza tra tribunale minorile ed ordinario, mantenutasi fino a tempi assai recenti.

La riforma del diritto di famiglia del 1975 introdusse elementi di novità anche in questo settore. L'art. 317 bis c.c., che non trovava alcuna corrispondenza nella normativa anteriore, disciplina, tra l'altro, l'affidamento dei figli di genitori non coniugati, a seguito di rottura della convivenza tra essi e i figli, ovvero quando convivenza non vi sia mai stata. La disposizione attribuisce notevole discrezionalità al giudice (il Tribunale per i minorenni) che, nell'interesse del minore, può escludere dall'esercizio della potestà entrambi i genitori, nominando un tutore, previsione assai lontana da quella dell'art. 155 c.c., che regola l'affidamento dei figli di genitori (uniti in matrimonio e) separati.

È indubbio che l'introduzione dell'art. 317 bis c.c. comportava un'autonomia del procedimento in esame, rispetto a quello di limitazione e decadenza dalla potestà (e tuttavia il riferimento all'esercizio della potestà, contenuto nella disposizione, l'ampia discrezionalità attribuita al giudice, la competenza del Tribunale per i minorenni e, di conseguenza, la procedura in camera di consiglio, di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg. contribuirono a mantenerlo nell'alveo dei predetti procedimenti di cui agli artt. 333 e 330, 336 c.c.).

Al contrario, la procedura davanti al Tribunale ordinario conquistava una sua autonomia rispetto a quelle relative ai crediti alimentari. Del resto, la riforma del 1975 precisa, con chiarezza, al novellato art. 261 c.c. che il genitore che ha riconosciuto il proprio figlio naturale assume nei suoi confronti tutti i diritti e doveri che ha nei confronti dei figli nati nel matrimonio. Dunque di mantenimento si doveva parlare, e non di alimenti, e la relativa azione veniva proposta nell'ambito di un ordinario procedimento di cognizione, promosso con atto di citazione, avvicinando così tale procedura a quella di separazione e divorzio, per quanto attinente ai provvedimenti relativi ai figli. Un “avvicinamento” ulteriore si verificava in virtù di una nota sentenza della Corte costituzionale (Corte Cost. 13/5/1988, n. 166) che, pur ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 155 c.c. nella parte in cui non ammetterebbe la possibilità di assegnazione della casa familiare di proprietà di un genitore all'altro, affidatario del figlio naturale, perveniva al medesimo risultato in via interpretativa.

La recente L. n. 54 del 2006, esprimendo un'evidente scelta di assimilazione della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa che “le disposizioni della presente legge si applicano anche (...) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte dalla predetta legge per la separazione e il divorzio: potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto), quelle più minute assunte anche separatamente, privilegio dell'affidamento condiviso rispetto a quello ad uno dei genitori, che comunque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all'interesse del minore; assegno per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento, ecc.

Ma le innovazioni introdotte dalla l. n. 54 comportano, oltre agli effetti sostanziali sopraindicati, pure rilevanti problematiche processuali, in quanto forniscono una definitiva autonomia al procedimento di cui all'art. 317 bis c.c., allontanandolo dall'alveo della procedura ex art. 330, 333, 336 c.c. e avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a quello di separazione e divorzio, con figli minori.

Né si potrebbe obiettare che si mantiene comunque la competenza funzionale del Tribunale per i minorenni e il rito della camera di consiglio: l'ordinamento prevede, ormai con una certa frequenza, la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giudizio di appello nei procedimenti di separazione e divorzio.

Delle innovazioni della l. n. 54 già ha tenuto conto questa Corte, con orientamento ormai consolidato, opportunamente superando la distribuzione di competenze tra tribunale minorile ed ordinario (affidamento dei figli di genitori non uniti in matrimonio, al primo, pronuncia sul mantenimento e sull'assegnazione della casa familiare, al secondo) e attribuendo ogni competenza al tribunale minorile (Cass. S.U. n. 8362 del 2007).

Da quanto si è finora osservato consegue dunque la piena ricorribilità per cassazione, nel regime dettato dalla legge n. 54 del 2006, di provvedimenti emessi, ai sensi dell'art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all'affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare.

Vanno esaminate altre due questioni preliminari, prospettate dalla controricorrente e ricorrente incidentale.

Lamenta essa di aver ricevuto copia notificata del ricorso incompleta della pag. 11 e del mancato deposito del decreto di concessione del gratuito patrocinio. Le eccezioni sono infondate. Quanto alla prima, va osservato che la relata di notifica indica chiaramente la “copia” del ricorso, conforme all'originale, e, secondo orientamento consolidato presso questa Corte {tra le altre, Cass. n. 23429 del 2007), la contestazione della veridicità della relata dovrebbe essere effettuata con querela di falso. Relativamente alla seconda, va rilevato che la controricorrente non indica uno specifico interesse al riguardo.

Vanno ora esaminati i motivi del ricorso principale e di quello incidentale.

Con il primo motivo, il ricorrente principale lamenta violazione dell'art. 132 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c.) per omessa sottoscrizione della “sentenza” da parte del giudice estensore, nonché per mancanza della dicitura “Repubblica italiana. In nome del popolo italiano” nell'intestazione.

Il motivo è infondato. Il ricorrente si riferisce a sentenza, laddove, nella specie, si tratta di decreto, per il quale è sufficiente la sottoscrizione del Presidente (al riguardo, Cass. n. 2381 del 2000) e non occorre la predetta intestazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 4 c.p.c). Egli sostiene che il giudice a quo avrebbe pronunciato ultra petitum, disponendo che il padre provveda al mantenimento della minore nella misura di euro 250 mensili, nonostante nessuna richiesta fosse stata formulata, al riguardo, dalla controparte.

Il motivo è parimenti infondato. Il principio espresso dall'art. 112 c.p.c., per cui il giudice deve pronunciarsi “non oltre” la domanda, non deve essere inteso in senso letterale e formale (soprattutto in una materia, come quella familiare e minorile, dove l'interesse del fanciullo - che spesso non è parte del procedimento - è nettamente preminente); il giudice dunque, accogliendo una domanda, può ben pronunciare sulle conseguenze che derivano da tale accoglimento (tra le altre, Cass. n. 6891 del 2005).

La D. G. aveva chiesto, già in primo grado, l'allontanamento del M. dalla casa familiare, e ciò comportava implicitamente che, se la domanda fosse stata accolta, il giudice si pronunciasse sul mantenimento della minore. Ciò ha fatto il giudice d'appello, riformando il decreto del Tribunale minorile, e disponendo il collocamento della minore presso la madre.

Con il terzo e quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente, perché strettamente collegati, il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nel disporre il collocamento della minore presso la madre.

I motivi sono inammissibili. Le “sintesi” formulate, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., sono del tutto generiche e mancano le chiare indicazioni del fatto controverso (v., al riguardo, Cass. n. 8897/2008). In ogni caso il ricorrente introduce profili di fatto inerenti la scelta del genitore più idoneo, insuscettibili di valutazione in questa sede.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 155 quater c.c. e 4, co. 2 l. n. 54 del 2006.

Sostiene che erroneamente il giudice d'appello ha revocato l'assegnazione a suo favore della casa familiare.

Il motivo è sostanzialmente assorbito, in quanto la casa era stata assegnata all'odierno ricorrente, quale collocatario della figlia minore: la revoca dell'assegnazione è diretta conseguenza del collocamento della minore presso la madre.

Va, conclusivamente, rigettato il ricorso principale.

Il ricorso incidentale è affidato ad un unico motivo: si lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine al regime di visita ritenuto troppo ampio per il padre. Il motivo è inammissibile: manca il necessario momento di “sintesi” (omologo al quesito di diritto) che circoscriva i limiti della censura, richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., Cass. n. 8897/2008), in applicazione dell'art. 366 bis c.p.c..

Il tenore della decisione richiede la compensazione delle spese di giudizio tra le parti, in ragione di metà, con condanna del ricorrente principale per l'altra metà.







P.Q.M.



La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale; dichiara compensate per metà le spese di giudizio tra le parti e condanna il ricorrente al pagamento per l'altra metà, liquidandole in euro 1.500, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Misure cautelari nei confronti di imputati per atti persecutori

 


Tribunale di Catanzaro
Sezione II penale
riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
- dr. Pietro Scuteri presidente
- dr. Sergio Natale giudice
- dr. Francesco Agnino giudice rel.
per decidere sull’appello ex art. 310 c.p.p. presentato il 9.5.2009 dal Pm del Tribunale di Crotone avverso l’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Crotone del 2 maggio 2009 con la quale era rigettata la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. nei confronti di P.S., in atti generalizzato, indagato per i delitti di cui agli artt. 612, 612 bis, 629, 635 c.p.;
esaminati gli atti del procedimento, udito il difensore e
sciogliendo la riserva di cui al separato verbale di udienza, il Collegio
osserva
Fatto
Il 26 marzo 2009, B.A. ed i suoi figli P.L. e M. presentavano querela nei confronti dell’odierno appellato.
In particolare le pp.oo. riferivano di essere state minacciate di morte dal P. (ti ammazzo, ti sparo, qui sono il padrone), il quale aveva danneggiato anche numerosi oggetti, a seguito del rifiuto da parte della B. di poter utilizzare un conto corrente intestato esclusivamente alla donna stessa.
Il successivo 2 aprile, i CC della stazione di Torre Melissa assistevano ad un litigio tra il P. e suo figlio Luca, nel corso del quale l’indagato proferiva nei confronti del figlio minacce di morte: ti ammazzo, vi mando al lastrico, te ne devi andare da Torre Melissa se no ti ammazzo (v. annotazione di servizio del 2 aprile 2009).
Il 3 aprile 2009, B.A. presentava ulteriore denuncia nella quale riferiva che il P. aveva costretto lei ed i suoi figli a chiudere il ristornate da loro gestito in quanto temo che mio marito, in cerca di denaro o solo per spaventarci, possa irrompere e distruggere tutto, come già accaduto, in presenza di clientela. Tale timore è giustificato dal fatto che mio marito passa più volte al giorno a bordo della autovettura e si apposta all’esterno dei locali per verificare se questi sono chiusi. Tale situazione di ansia e paura oltre a rendere impossibile la mia sopravvivenza e quella dei miei figli sta pregiudicando la nostra situazione economica, in quanto l’attività lavorativa è ferma da diversi giorni.
Il Pm formulava richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo.
Il gip rigettava la richiesta sul rilievo che non vi è la necessaria determinazione dei luoghi che si vorrebbero interdire all’indagato; infatti, necessitano di specifica (e preventiva, ossia indicata nel testo dell’ordinanza, e non già lasciata alla futura attività di indagine di chi sia delegato ai controlli) individuazione tutti i luoghi indicati nella richiesta, ossia la abitazione delle tre persone indicate.
Il Pm interponeva atto di gravame alle cui motivazioni si rinvia.
L’appello è fondato e deve essere quindi accolto.
Va premesso che in conformità al principio giurisprudenziale secondo cui “quando il GIP, ritenuta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, abbia respinto la richiesta dal pubblico ministero di applicazione di una misura cautelare personale per assenza di esigenze cautelari e il P.M. abbia proposto appello su quest’ultimo punto, la parziale statuizione del GIP sulla sussistenza degli indizi, non suscettibile di autonoma impugnazione da parte dell’indagato, non determina a carico di questo alcuna preclusione nel giudizio di appello né sotto il profilo del giudicato cautelare né sotto quello dell’effetto devolutivo dell’impugnazione del P.M. In tale caso il giudice di appello è legittimato a procedere alla verifica della sussistenza dei gravi indizi in quanto antecedente logico necessario alla decisione sulle esigenze cautelari e presupposto ineludibile dell’applicabilità della misura cautelare” (cfr., Cass., sez. VI, 15 maggio/29 agosto 1995, n. 1835), nell’ambito del presente procedimento incidentale, questo Collegio è chiamato a rivalutare, sotto ogni profilo, la fondatezza dell’originaria domanda cautelare.
Peraltro, condividendo la valutazioni fatte sul punto dalla parte pubblica, l’intestato Collegio osserva come la decisione del gip assuma i caratteri di un non liquet, non avendo il giudice di prima istanza preso posizione sul fondamentale ed imprescindibile ruolo di verifica demandato dalla legge (impregiudicata la valutazione dei profili indiziario e cautelare), contestando la genericità dei luoghi di non avvicinamento richiesti dal Pm.
Al contrario, i luoghi sono stati indicati con precisione, tenuto conto della elementare considerazione del rapporto di coniugio esistente tra il P. e la B. nonché di discendenza con i propri figli (oltre alla limitata estensione territoriale dei luoghi teatro della odierna vicenda cautelare), di modo che lo stesso è certamente a conoscenza delle loro abitazioni nonché del luogo di lavoro dagli stessi frequentato (per come dimostrato del resto dalla numerose “visite” fatte).
Sotto altro aspetto, il decreto legge n. 11/09, convertito con la legge_38_2009, ha introdotto nel nostro ordinamento, peraltro con notevole ritardo rispetto agli altri ordinamenti europei, una “nuova” fattispecie di reato finalizzata a far venire meno la pericolosa condotta “persecutoria” nei confronti soprattutto delle donne.
La figura ai sensi dell’art. 612 bis c.p. prevede che, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.
L’illecito in esame è connotato dalla sussistenza di tre elementi costitutivi: 1) la condotta “tipica del reo; 2) la reiterazione di tale condotta; 3) l’insorgere di un particolare stato d’animo nella vittima.
La condotta illecita in esame è ascrivibile in genere nelle classiche ipotesi delittuose di minacce e molestie, peraltro già previste e sanzionate autonomamente dal Legislatore.
Sussiste la minaccia nel caso in cui il reo prospetti alla vittima un male futuro, in modo tale da turbare in modo grave la tranquillità della vittima stessa. La molestia, invece, si ravvisa nel caso in cui venga alterata in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona media. Tuttavia, la pena edittale prevista per tali reati è estremamente bassa e preclude la possibilità di applicazione di misure cautelari coercitive, laddove invece, con l’introduzione della nuova fattispecie - punita con pena che nel massimo a quattro anni di reclusione - ne consente l’integrale applicazione: palese, del resto, la finalità del legislatore di potenziare, in presenza di specie, il ricorso alle misure cautelari, che si è spinto fino a prevedere l’introduzione di una nuova misura, contemplata nell’art. 282 ter, ed assistita dalle comunicazioni all’Autorità di P.S. ai sensi del nuovo art. 282 quater.
Detta condotta deve essere reiterata, seriale nel senso che i sopra descritti atti devono succedersi nel tempo. La continuazione e reiterazione in un certo lasso di tempo è elemento costitutivo. Pertanto i suddetti singoli atti, se posti in essere in un unica occasione, non integrano la fattispecie delittuosa ex art 612 bis c.p. ma quelle più “tradizionali” del tipo “minaccia” o “molestia”, magari continuate se dette condotte vengano posti in essere più di una singola volta.
Pertanto, la condotta tipica è costituita dalla reiterazione di minacce o di molestie e la peculiarità della ripetizione di dette condotte porta ad affermare che si tratti di reato abituale, mentre, nonostante la presenza del reato di cui all’art. 612 c.p. tra gli elementi costitutivi, sembra da escludersi la configurabilità degli atti persecutori quale reato complesso. Invero, prima facie parrebbe configurarsi la fattispecie del reato complesso “speciale”, dato dalla “fusione in posizione paritetica di due reati in altro e differente reato, tuttavia, ad una più attenta analisi, si può osservare che, con il termine “molestia”, il legislatore pare riferirsi alla condotta in sé considerata e non tanto, sulla falsariga della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., al risultato della condotta medesima. Ne consegue che, aderendo a quella parte della dottrina che esclude dall’ambito dell’art. 84 c.p. i casi di reato complesso “in senso lato” (la cui genesi deriva non già dall’unione di più reati, ma da un modello base a cui si aggiungono ulteriori elementi di per sé non costituenti reato), se ne deve desumere la non riferibilità dell’art. 612 bis a detto istituto.
Infine, tali azioni illecite devono cagionare alla vittima “un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere”.
Con l’evento del grave disagio psichico, vista la indeterminatezza della figura, si deve intendere solo ed esclusivamente a forme patologiche contraddistinte dallo stress, di tipo clinicamente definito grave e perdurante. Quanto al secondo degli eventi conseguenti alla condotta illecita, ovvero il timore per la sicurezza personale o propria, tale ipotesi ricorre ogniqualvolta la vittima, a causa dei comportamenti del reo, abbia “timore” per la propria sicurezza. Tale stato d’animo deve essere valutato in concreto, in base a tutti gli elementi che caratterizzano la vicenda, e deve essere tale se riferito ex ante con riguardo alla valutazione di una persona media. Infine, l’ultimo degli eventi sopra riportati riguarda il caso in cui, a seguito delle condotte persecutorie, il soggetto leso sia costretto, contro la sua volontà e non potendo fare altrimenti, a modificare rilevanti e gratificanti abitudini di vita.
Sulla base di quanto detto, l’illecito in esame sussiste solo quando siano integrati tutti i succitati elementi obbiettivi.
Il bene giuridico tutelato dal Legislatore si ravvisa, in primo luogo, nella libertà morale, ovvero nella libertà di autodeterminazione dell’individuo. Invero, la fattispecie mira senza dubbio a tutelare la libertà morale, come facoltà del soggetto di autodeterminarsi. Infatti, tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, la quale può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata.
Inoltre, tale condotta delittuosa potrebbe ledere, una volta realizzatasi in capo alla vittima quel grave disagio psichico, il bene costituzionalmente garantito della salute. In tale ipotesi, il bene protetto potrebbe essere individuato nella tutela della incolumità individuale. Pertanto, l’illecito de quo deve essere considerato un reato essenzialmente plurioffensivo.
In ordine alla natura giuridica, si configura un reato di danno, richiedendosi la lesione effettiva del bene giuridico protetto (o dei beni giuridici protetti nel caso in cui si opti per un reato plurioffensivo).
Non è stata accolta, infatti, la versione della Commissione Giustizia della Camera dei deputati che configurava l’illecito come reato di pericolo concreto, in quanto ciò avrebbe comportato un’eccessiva estensione dell’operatività del reato, con il rischio di incriminare fatti inoffensivi.
Inoltre, in base a quanto affermato, pare potersi concludere per la configurabilità di un reato di evento, per la consumazione del quale il legislatore richiede la realizzazione alternativa di una delle tre situazioni sopra esposte. Pare trattarsi, peraltro, di reato di evento a forma libera, in quanto, benché ad una prima lettura possa sembrare che la fattispecie in questione debba realizzarsi soltanto mediante le condotte di minaccia o molestia, è pur vero che le medesime possono concretarsi in una molteplicità di forme non aprioristicamente individuabili.
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, avendo cura di precisare che - qualificandosi lo stalking quale reato d’evento - il soggetto dovrà anche rappresentarsi e volere uno degli eventi descritti dalla norma.
In proposito va posto un punto fermo ed indiscutibile ai fini della presente decisione cautelare, ossia che il cardine della presente indagine è costituito dalle dichiarazioni accusatorie delle persone offese, precise, coerenti, dettagliate che, di per sé sole, (pur se, come si vedrà, ampiamente riscontrate da altri elementi d’indagine) possono costituire prova di colpevolezza ed, a fortiori, gravi indizi ex art. 273 c.p.p., ove superino il vaglio della verifica della loro attendibilità soggettiva ed oggettiva intrinseca da parte del Giudice (giurisprudenza pacifica: v. ex plurimis: Cass., 3 dicembre 2001, n. 43303, Panaro; Cass., 1° giugno 1999, n. 6910, Mazzella; Cass.,15 ottobre 1999, n. 11829, Ascani).
Infatti, per la Suprema Corte “ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale, l’art. 273 cod. proc. pen. postula la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza quale “minimum” probatorio che deve inderogabilmente assistere l’adozione della misura, solo nel caso in cui sussista una prova indiziaria; quando, invece, sia presente una prova diretta, va escluso il ricorso al concetto di “gravità” inerente alla prova logica costituente l’indizio né occorre la verifica di attendibilità intrinseca o il riscontro esterno, in quanto il minimo di gravità indiziaria è soverchiato dal diverso e più soddisfacente grado di prova acquisita. Il che si verifica nell’ipotesi di prova testimoniale proveniente dalla persona offesa dal reato, purché non validamente inficiata, e che rappresenta un “plus” rispetto all’apporto richiesto dall’art. 273 cod. proc. pen. e non abbisogna, per l’emissione del provvedimento cautelare, né di altri elementi di prova nè di riscontro esterno” (Cass., sez. VI, 5 luglio/2 settembre 1995, n. 2803, Pozzessere; nello stesso senso Cass., sez. I, 27 maggio/14 luglio 1992, n. 2468, Abbinante, ove si è affermato il principio di diritto per il quale “Le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono assurgere, se intrinsecamente attendibili, al rango di “gravi indizi di colpevolezza”, ai fini dell’applicazione di misure cautelari, indipendentemente dall’esistenza o meno di elementi di riscontro che valgano a corroborarle”; principio che costituisce massima tralaticia per come affermato in tempi più da Cass., sez. II, 27 novembre/17 dicembre 2008, n. 46671).
In altri termini, come affermato da Cass. n. 39366 del 26 ottobre 2006: in tema di misure cautelari, il richiamo ad opera del comma primo bis dell’art. 273 cod. proc. pen. dei commi terzo e quarto dell’art.192 cod. proc. pen., non comporta la necessità che le dichiarazioni della persona offesa trovino riscontro in elementi esterni, così che esse possono ancora costituire da sole fonte di prova quando siano ritenute dal giudice, secondo il suo libero e motivato apprezzamento, attendibili sul piano oggetto e su quello soggettivo.
Nel caso di specie, le dichiarazioni delle persone offese, già di per sé precise e circostanziate, sono state confermate dalle numerose annotazioni di Polizia degli agenti intervenuti che danno atto delle minacce di morte riferite dal P.S. nei confronti dei loro familiari o comunque davano atto delle richieste di intervento da parte delle pp.oo. (v. annotazioni di servizio del 26 marzo, 2 e 3 aprile 2009).
In definitiva, gli indizi delineati a carico del prevenuto possiedono i caratteri della gravità e dell’univoca concludenza in ordine ai delitti ascrittigli.
Quello che connota il reato in oggetto, distinguendolo dai maltrattamenti , è infatti, come già detto, la circostanza che le condotte del denunciato, sono reiterate e ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave, pur senza arrivare ad integrare i reati di lesioni o maltrattamenti .
Alla luce delle reiterate minacce, riferite dalla B. e dai suoi figli e la promessa di ucciderli a causa del rifiuto da parte delle pp.oo. di continuare a dilapidare il patrimonio familiare, le condotte di appostamento, le continue minacce e aggressioni non possono non essere lette come “atti persecutori” tali da ingenerare nella vittima uno stato di continua paura per sé stesse e da doversi continuamente “guardare alle spalle” così modificando le proprie normali abitudini di vita.
Infatti, nelle plurime denunce la B. ed i suoi figli hanno riferito di sentirsi perseguitati e di temere per la loro incolumità
Ritiene il Collegio che, alla luce di tutte le circostanze, permangano gravi esigenze cautelari nei confronti dell’appellato che legittimano la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. (in particolare: abitazione di B.A., P.L. e P. M.; luoghi di lavoro dei medesimi; abitazione dei prossimi congiunti degli stessi; area di 100 metri circostanti ai luoghi sopra detti, itinerari abituali tra i predetti luoghi), con conseguente divieto di comunicare con qualsiasi mezzo con le pp.oo.
La gravità del delitto commesso e la sfavorevole prognosi di astensione da future condotte delittuose escludono che la non lieve pena irroganda possa essere sospensivamente condizionata.
P.Q.M.
Visto l’art. 310 c.p.p.,
accoglie l’appello del Pm e, per l’effetto, previo annullamento dell’ordinanza emessa il 2 maggio 2009 dal Gip del Tribunale di Crotone, dispone l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati delle pp.oo. (in particolare: abitazione di B.A., P.L. e P. M.; luoghi di lavoro dei medesimi; abitazione dei prossimi congiunti degli stessi; area di 100 metri circostanti ai luoghi sopra detti, itinerari abituali tra i predetti luoghi), con conseguente divieto di comunicare con qualsiasi mezzo con le pp.oo.
Delega i C.C. territorialmente competenti a sovrintendere al controllo dell’osservanza delle prescrizioni imposte al custodito.
Si dà mandato alla cancelleria per le comunicazioni di legge e - previa verifica della definitività ex art. 310, comma 3, c.p.p. - per l’esecuzione del provvedimento nei confronti di P.S., mediante trasmissione di copia della presente ordinanza al Pm che ha richiesto l’applicazione della misura.
Così deciso in Catanzaro il 21 ottobre 2009
Il giudice estensore Il Presidente